Siamo in piena repressione sessuale benpensante negli Stati Uniti con retate in locali dove l’esibizione e la liberazione sessuale vengono vissute senza inibizioni. Mi riferisco all’epoca in cui Andy Warhol opera nella sua Factory, lo studio dove le espressioni artistiche si liberavano come a liberarsi erano i corpi e le fisicità dei frequentatori.
Quale opera migliore può suggellare questa prassi esistenziale, artistica e, quindi, anche pensiero se non Blow Job, un mediometraggio di 35 minuti interamente dedicati al primo piano di un avvenente e semplice ragazzo biondo mentre riceve una fellatio. Il tutto è centrato sul viso dai lineamenti delicati ma allo stesso tempo maschili del giovane che, quasi in un’estasi contemplativa, autocontemplativa, sensuale quanto ricca e densa di un eros esplosivo, cambia e varia le proprie espressioni facciali fino ad arrivare al culmine del piacere nella sua intensità.
La tecnica voluta è quella dell’inquadratura continua, Andy Warhol spiegherà che il montaggio per lui è “troppo stancante” tanto da lasciare “che la camera funzioni fino a che la pellicola finisce, così da poter guardare le persone per come sono veramente”. L’intramontabile opera, oltre a testimoniare la semplicità della narrazione visiva, è un capisaldo della produzione artistica di Warhol, che ha fatto della naturalità e della “trascuratezza” quotidiana, anche commerciale e consumeristica, un oggetto di estetica senza confini.
La virilità del ragazzo, alla fine si accende una sigaretta per rilassarsi dopo una tensione edonistica senza precedenti nella storia del cinema, dirompe e irrompe in un’ambientazione suburbana, trascurata, sobria di un vicolo newyorkese. E’ viva la forza di testimonianza visiva di un lato oscuro e clandestino, è alta l’attrattività che tale caratteristica provoca, della vita omosessuale presente nella grande mela, ricca di fascino trasgressivo e anticonformista.