«Non sembri uno di qui… Sembri venire da altrove… Da un posto bellissimo». Sono le parole di una ragazza infatuata, durante un appuntamento galante con Brandon Teena. Lui viene, in effetti, da un paese favoloso e impossibile: quello ideale cui appartiene chiunque sia se stesso. All’anagrafe, lui è Teena Brandon ed è femmina. Eppure, le adolescenti con cui esce lo considerano “il miglior ragazzo che abbiano mai avuto”. Anche se i loro fratelli maggiori gli danno la caccia, al punto da farlo fuggire dal paese in cui abita.
Così comincia Boys Don’t Cry (1999), film statunitense diretto da Kimberly Peirce e tratto da una storia vera: quella di Brandon Teena (Lincoln, 1972 – Humboldt, 1993), ragazzo transgender la cui vicenda si concluse in modo tragico. Nella pellicola, è interpretato dalla stupefacente Hilary Swank, che vinse un Oscar come Miglior attrice protagonista (2000) grazie a tale ruolo. E non fu questo l’unico riconoscimento ottenuto dal film.
Brandon, sia nella fiction che nella realtà, pagò con la violenza e la vita l’aver voluto essere se stesso. I suoi nemici erano maschi pseudo-alfa (non di rado con precedenti penali) e forze dell’ordine allo stesso tempo disattente e importune. Nel film, persino il suo migliore amico (gay e ben consapevole di cosa comporti la “diversità sessuale”) fa fatica a comprendere: «Se sei lesbica, perché non lo dici?» «Perché non sono una lesbica».
Sia nel film che nella vicenda reale, la transizione medicalizzata fu vagheggiata, ma non effettuata. La madre di Brandon continuò a parlarne come di “sua figlia”, pur accettandone la definizione di “transgender” e affermando che avrebbe accettato il suo vivere al maschile, purché fosse felice. Lui si definì “ermafrodito”, anche se non lo era. Alcuni media lo descrissero come “lesbica”, appunto. Anche la sua lapide lo definisce al femminile.
Il film non piacque alla madre di Brandon, per quanto apprezzasse il fatto che esso spiegasse ciò che “sua figlia” aveva dovuto affrontare. Lana Tisdel, la fidanzata del defunto protagonista, ingaggiò una battaglia legale coi produttori, per l’uso non autorizzato del suo nome e per il modo in cui era stata rappresentata.
E il titolo? È lo stesso di una canzone della band The Cure, eponimo di un loro album del 1980. Esso fa parte della colonna sonora e sottolinea le scene dell’amore “impossibile” fra Brandon e Lana (Chloë Sevigny). Il brano esprime i sentimenti di un ragazzo che sa di “essersi spinto troppo in là” nel ferire i sentimenti del suo amore. Non può tornare indietro e ne soffre, ma (dice il ritornello) “i ragazzi non piangono”. Brandon, nel film, si è spinto troppo in là con le bugie che ha raccontato per giustificare il proprio cambio di domicilio. Si è spinto anche troppo oltre le convenzioni sociali, vivendo da uomo pur essendo femmina e amando le ragazze etero. Si sottopone anche a prove di coraggio sciocche e pericolose, soltanto per la convinzione che «qui, i ragazzi facciano così». (Dimostrare la propria identità agli altri – e forse a se stessi – non è un lavoro facile). Si è fatto incarcerare per una sciocchezza, facendo crollare la vita che si era costruito. Ma “i ragazzi non piangono”. Neanche per un attimo cede all’autocommiserazione. E anche la madre del Brandon storico lo ricorda come “una persona felice”. Nonostante tutto.
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Erica Gazzoldi