Il 10 novembre 2017, la Libreria Antigone di Milano (Via Kramer, 20) ospiterà Anton Emilio Krogh, avvocato e scrittore, autore del romanzo autobiografico Come me non c’è nessuno (2017, Mursia). Co-organizzatore dell’evento è il nostro Circolo Culturale TBIGL+ “Harvey Milk”. Nell’attesa, scambiamo qualche parola con Krogh…
- Una Sua biografia sul sito ilSicilia.it dice che Lei “da piccolo voleva fare il giornalista ma, visto che ora è un avvocato, nella realtà ha deciso di non diventare mai grande”. Cosa significa?
Non diventare mai grande significa non perdere mai la nostra parte bambina, adolescenziale: quella che spesso, crescendo, viene chiusa a chiave in cassetto e sepolta per sempre.
- Un’opera dedicata al potere della musica… scritta da un non-musicista (perlomeno, non di professione). Cosa significa la musica, per chi “nella vita fa altro”?
Ma la musica è vita! Anche per una persona che non la pratica per professione. La musica è un veicolo di emozione per tutti: ci fa ridere, piangere, emozionare. Tutte le fasi della nostra vita sono legate a delle note; basta l’inizio di una canzone a distanza di decenni, per farci catapultare indietro, in un momento particolare della nostra vita, bello o brutto che sia stato. Ma se lo immagina un film senza colonna sonora, per esempio? Insomma, è qualcosa che unisce tutti!
- Lo sfondo storico degli anni Sessanta e Ottanta è rilevante, nel Suo romanzo. Anni che sono rimasti nella memoria anche e soprattutto per la musica. Cosa significava essa, per la gioventù dell’epoca?
Ero bambino negli anni ’60 e avevo vent’anni negli anni ’80. Degli anni ’60 ho subito il fascino, la forza vitale, l’energia dirompente, direi esplosiva, attraverso la vita dei miei genitori. Li osservavo come dal buco della serratura e la gioia di quegli anni arrivava all’Anton Emilio bambino . Da lì, partono Come me non c’è nessuno e la mia storia.
Gli anni ’80 li ho vissuti in prima persona, e, come per gli anni ’60 (anche se, ovviamente, in modalità diverse), si è trattato di un decennio ricchissimo, in termini di mode, cambiamenti, musica. Il panorama (non solo italiano, ma soprattutto estero) offriva, per un ventenne di allora, spunti vitali incredibilmente ricchi.
Credo che essere stati giovani negli anni ’60 o negli ’80 (nel senso di averci 20/30 anni e goderseli a pieno in tutto il loro fermento) sia stata, per chi lo era, una grande fortuna. Ed io mi ritengo fortunato, perché gli anni ’80 li ho attraversati nel migliore dei modi: tra l’altro, con incontri e avventure incredibili tra Napoli, Londra o New York, come racconto nel libro.
- Erano anche anni di crescita economica oggi impensabile. Si presagiva già la crisi dei tempi odierni? O la maggior parte degli italiani galleggiava in un facile ottimismo?
Negli anni ’60, ero un bambino; ma, col senno di poi, non credo si percepisse crisi o altro di negativo. Era tutto in crescita e in fermento; del resto, si usciva dalla guerra, c’era la crescita economica ed era tutto un boom di novità, di mode e – soprattutto – di voglia di vivere. Negli anni ’80, noi ventenni di allora non credo avessimo idea di cosa potesse significare la crisi o altro. Erano gli anni post terrorismo in Italia, mentre dovunque nel mondo occidentale sembrava esserci un benessere che non dovesse avere fine, e invece….
- Il Suo romanzo parla di solitudine e inadeguatezza. In mezzo alla favola del benessere, un malessere precoce e ineliminabile… Come spiega Lei questa (apparente) contraddizione? Possiamo dire che esiste anche ora?
Sono contraddizioni solo apparenti .Essere nati, come me, in una famiglia alto-borghese degli anni ’60 non significava certo non avere problemi. L’infanzia (e soprattutto l’adolescenza) sono una sorta di “malattia” che non risparmia nessuno. Non ha importanza di chi tu sia figlio e da dove tu venga: la scoperta del sé e la propria affermazione nel mondo, quando si è molto giovani, passano attraverso percorsi spesso molto complessi, che nulla hanno a che fare con il contesto economico o sociale in cui vivi.
Anzi: è proprio in certi ambienti apparentemente più fortunati che, a volte, si nascondono grandi problematiche e solitudini. Era così quarant’anni fa ed è così oggi – e credo lo sarà per sempre.
- Lei ha vissuto a stretto contatto col mondo dello spettacolo. Rispetto alla visione “ingenua” che possiamo averne noi semplici spettatori, quali differenze ha notato? È un mondo affascinante? Infido? Stimolante? Triste?
Il mio modo di vivere, negli anni, mi ha portato ad avere un certo tipo di frequentazioni ed anche numerosi e carissimi amici nel mondo dello spettacolo. È un mondo, che inizialmente, può avere il suo fascino, questo è scontato; ma, alla fine, ci si rende conto che non è poi così distante da tutto il resto e, soprattutto, che non è tutto oro quel che luccica. La vita di un artista, cantante, attore o altro che sia, non è una passeggiata – soprattutto se fatta con l’impegno e la dedizione che si dovrebbe mettere in qualsiasi professione.
- Il romanzo tratta di “voglia di andare oltre le convenzioni”. E i riassunti on line parlano apertamente di “New York, dove ogni forma di amore era già normale”. Visto il tipo di sito su cui ci troviamo, questo è un punto preponderante. Qual era la scena newyorkese, dal punto di vista degli “amori diversi”? E cos’ha significato per Lei scoprire detta scena?
Per un ragazzo, arrivare a New York negli anni ’80 era come atterrare sulla luna. Avete idea di cosa potesse significare solo fare la fila fuori dai templi della musica, come lo Studio54 o il LimeLight? Già quella era una esperienza, figurarsi riuscire ad entrare e a passarci la notte! Realtà che, in Italia, non erano neanche lontanamente immaginabili.
Se, poi, una vocina dentro ti sussurrava che, forse, a te piaceva qualcosa di diverso da quello che ti avevano sempre insegnato fosse giusto, beh… allora si che ti si spalancava un mondo. Perché già in quegli anni, a New York, ogni forma d’amore era possibile – e anche di questo parlo e racconto nel mio libro. E, naturalmente, di come – rientrando da quella città – non fossi più lo stesso, per ciò che avevo visto e vissuto nella Grande Mela.
- Perché proprio Rita Pavone? Quale speciale caratteristica della sua arte Le ha “salvato la vita”?
Bisogna leggere il libro per scoprirlo. Nulla succede a caso nella vita e così, leggendo Come me non c’è nessuno, scoprirete che, in un certo momento della mia vita, anzi, in un attimo in cui tutto si consumò, arrivò una voce dirompente, energica, ma anche un po’ bambina, che poteva essere solo quella di Rita Pavone. Ogni vita ha il suo Big Bang e il mio è stato un twist!
- Il titolo è Come me non c’è nessuno. Potrebbe sembrare un’affermazione arrogante, se non si pensasse all’importanza di amare se stessi, per avere un rapporto sereno anche col prossimo. Secondo Lei, qual è la differenza fra un sano amor di sé e l’ipertrofia dell’ego?
Ho scelto questo titolo, ovviamente, partendo dalla famosa canzone di Rita Pavone: Come te non c’è nessuno, trasformandolo in Come me non c’è nessuno, pensando ad ogni singolo lettore e a quanto ognuno di noi sia speciale e inimitabile con la propria vita, che, peraltro, può essere raccontata e nella quale tutti, in qualche modo, ci possiamo ritrovare. Perché, alla fine, noi siamo unici, ma i percorsi di vita, spesso e volentieri, simili. Obbligatorio è avere sempre un sano amore verso se stessi, anche se oggi (soprattutto i giovanissimi, forse anche a causa dei social) tendono ad un’autovenerazione ed autocompiacimento che possono portare solo a risultati dannosi, cercando troppe conferme all’esterno, laddove invece il processo di amore e autostima deve essere tutto e solo nostro.
Ma, attenzione: il mio romanzo ha anche un sottotitolo (Diario di un sogno), perché tutta la storia che racconto parte da un sogno realizzato e dal fermo convincimento che “I miracoli accadono a chi ha il coraggio di fare richieste irragionevoli”, come lessi appunto su un graffito del metrò, nella stupefacente New York degli anni ’80!
Intervista a cura di Erica Gazzoldi