Pubblichiamo, autorizzati dall’autore, la lettera inviata agli amici e ai soci da Stefano Aresi, dimessosi stasera dalla carica di presidente del Milk dopo aver servito questa associazione per tre anni. Stefano ci prega di ricordare a chi leggerà questa nota che essa è nata come lettera “quasi privata” e non come articolo per il blog.
Care amiche e cari amici,
scrivo queste righe sperando che riescano a rappresentare il mio pensiero. Esse vanno considerate come un tentativo di riassumere le motivazioni della mia scelta di rassegnare le dimissioni dal mio secondo mandato nel ruolo di presidente del Circolo di Cultura Omosessuale “Harvey Milk” di Milano, che sono fiero sia giunto all’assemblea del 5 settembre scorso (allo scadere del mio primo mandato) in ottimo stato, arricchito dall’apporto umano e professionale dei suoi volontari, inserito in una rete di collaborazioni positive e talora assai prestigiose, individuato come punto di riferimento, e con una situazione di gestione democratica, burocratica ed economica chiaramente stabile.
E’, quello che segue, un testo che potrà apparire ad alcuni lungo e noioso, lo so, ma è dedicato solo a quanti sono realmente interessati a conoscere le mie posizioni personali e, quindi, a leggerlo nella sua prolissità, dovuta al fatto che riguarda una esperienza per me davvero preziosa e emozionante, una esperienza che chiudo senza alcuna polemica, melanconia, o insoddisfazione: ho preso questa decisione riflettendoci quasi un mese, con la serenza coscienza di chi vuole il bene di una realtà che ama e quindi deve anche commisurare il proprio impegno alle proprie energie, capacità, necessità di crescita umana e professionale.
So che in molti avrebbero chiesto subito – come giusto – spiegazioni dirette: li invito a considerate questo testo un assaggio in vista del nostro primo incontro via à vis, ove avremo l’opportunità di confrontarci come i membri di una famiglia dovrebbero sempre fare, guardandosi negli occhi.
Vi tedierò anche con alcune considerazioni autobiografiche, qua e là… Ma sono una persona, e la biografia pregressa di ciascuno di noi è la parte più grossa della nostra realtà quotidiana. Specie quando affrontiamo scelte che riteniamo importanti.
A qualcuno questa notizia apparirà come un fulmine a ciel sereno. Chi mi conosce davvero capirà però che di sereno, oggi, c’è solo l’animo con cui prendo questa decisione dopo le dovute valutazioni rivolte all’associazione, ai singoli, a me stesso, a ciò che io intendo per attivismo. Quando otto anni fa per la prima volta varcai intimorito la porta di una associazione GLBT (il CIG-Arcigay di Milano), ero semplicemente un ragazzo con una grande voglia di amare ed essere se stesso, che usciva da una adolescenza e da una prima giovinezza tremende, perché vittima di bullismo, discriminazione, omofobia interiorizzata, ignoranza, solitudine. Non volevo certo fare l’attivista. Sono stato subito accolto dai volontari e da quelli che sarebbero diventati alcuni tra i miei più cari amici come se fossi di casa, conoscendo lì persone impegnate validissime, che pure operavano in un contesto associativo difficile e stanco. Eppure riuscirono a farmi vedere che c’era un altro modo di essere se stessi oltre a quello propinato violentemente dalle riviste, dai siti internet, dalle stereotipizzazioni stesse che le realtà gay spesso si impongono, e che proprio in quel mondo avrebbe potuto trovare un perché il mio ardore per la politica sociale, che ha sempre trovato il proprio succo nel motto kennediano “Non chiedete cosa lo Stato possa fare per voi, ma cosa voi possiate fare per lo Stato”.
Il confronto con queste persone mi ha dato un bagaglio enorme, che si è aggiunto a quello che già avevo accumulato grazie al lavoro sociale e culturale che avevo svolto nel corso degli anni precedenti in altri contesti.
Dopo cinque anni di militanza, in una situazione politica dell’associazione in cui operavo allora a dir poco disastrosa, mi sono detto: “Se non faccio un balzo di impegno ora, a ventinove anni, che ho tutte le energie, le ossa resistenti a reggere i colpi, le possibilità pratiche e la voglia di farlo, che vedo tanti condividere le mie idee eppure nessuno farsi avanti… quando mai lo farò? Poi sarò troppo stanco, o muteranno le cose così da non essere più al 100% disponibile per questa causa”. Avevo iniziato a fare l’attivista sperando di evitare a un ragazzo o due di vivere una adolescenza come la mia: ora mi rendevo conto di avere le forze e l’esperienza per portare avanti un modo di lavorare che diventasse sistematicamente positivo per una intera comunità, una comunità affamata di riscatto, da saziare con modalità che dovevano essere più efficaci di quelle che avevo visto applicate sino a quel momento attorno a me. Il caso e le affinità elettive han fatto sì che mi fossero accanto persone con la medesima visione delle cose. Ne abbiamo discusso tanto. Ognuno ha dato del suo. Abbiamo fondato il Milk.
E’ stata una idea premiata dai fatti che sono seguiti, grazie all’impegno di tanti volontari, dei consiglieri, dei simpatizzanti, sbagliando – come è giusto e normale che sia – facendo esperienze, e facendo del bene. Non poco credo. Personalmente ho cercato nel mio ruolo statutario di dare all’associazione una struttura burocratica agile e solida, una visibilità concreta, un taglio il meno autoreferenziale possibile; ho tentato di convincere chi mi è stato accanto che l’associazionismo, al Milk, doveva essere inteso come un mezzo per ottenere un risultato, e non come un fine: ho quindi cercato di seguire le scelte del Direttivo nell’ottica di far crescere una associazione che fosse una unione di attivisti, e non il ritrovo della domenica. Ho tenuto sempre ben presente che al centro di ogni nostra decisione ci doveva essere un solo criterio inamovibile, la persona, e quindi mi sono imposto l’obbiettivo di essere un rappresentante legale che sapesse sempre chiamare per nome i propri soci, e ne conoscesse il sorriso. E’ quella, amici miei, l’unica cosa importante da conoscere: non le teorie queer, non le regole per non pestare i piedi alle regine del movimento, non le seghe mentali sull’uso (idiota) degli asterischi nei comunicati stampa (mai letti da alcuno perché illeggibili). Ho tentato infine di educare i nostri più piccoli fratelli che giungevano in associazione all’idea che la libertà sia un valore irrinunciabile, così come la propria dignità, e che è proprio quando si toccano questi due principi che dobbiamo divenire duri e puri, anche nei confronti delle altre persone GLBT. A testa alta, visibili, senza alcun compromesso. Sempre.
Il Milk è cresciuto, avendo per attivisti individui ascrivibili ad ogni categoria pensabile del mondo GLBT e i loro amici etero, i genitori… aperto e permeabile al bagaglio umano che chiunque si sia avvicinato ha saputo riversare in noi… una ricchezza infinita, vissuta in un contesto di sano ottimismo. Sono cresciuto molto in questi tre anni. Spero che ora l’associazione continui ad offrire questo percorso di crescita a tanti altri.
Abbiamo dato vita ad eventi di qualità (una cosa su cui ho stressato tutti all’inverosimile: la qualità), eventi che offrissero contenuti solidi, fruibili da tutte e tutti, e non elucubrazioni fantascientifiche espresse in genderese. Abbiamo fatto nascere servizi alle scuole, alle ragazze trans che si prostituiscono, a chi nulla sa di malattie sessualmente trasmissibili… Ma soprattutto siamo stati in grado di fare quella che chiamiamo la “politica del pianerottolo”, ossia comunicare le nostre necessità, le nostre vite, i nosti amori, la nostra realtà alla persona qualunque, alla signora Maria della porta accanto. Io ero lì, con voi, a volte un po’ troppo mamma a volte un po’ troppo pasionaria isterica, scelto da voi per rappresentarvi e, talora, per guidarvi dove vedevo meglio io… o farmi guidare dove meglio vedevano altri soci.
Sono contento di aver intrapreso questo percorso faticoso e stimolante nel mio ruolo, in un intreccio sviluppato tramite un rete fitta di contatti con la gente, con le istituzioni e le realtà cittadine e provinciali: un percorso basato sull’apertura al dialogo e sul desiderio di portare la “normalità” dell’essere GLBT (sì questa parola – ‘normale’ – a me piace, e tanto, se usata in modo corretto) al di fuori del ghetto impostoci o autoimposto.
Milano è ancora oggi una sfida, lo sappiamo tutti, la bomba omofoba scoppia quando meno te lo aspetti. La Provincia è però una trincea. Viviamo nell’Italia di Berlusconi, una nazione che mai ha superato il fascismo e che ci nega diritti importanti, stordendoci con altro per non affrontare i problemi reali: forse per questo è stato doveroso per me urlare in faccia a molti che la libertà, per le persone GLBT, non è semplicemente il conquistarsi uno sballo la domenica sera, ma avere una serie di alternative per essere se stessi serenamente, ogni giorno, a casa, a scuola, in ufficio, onde costruirsi una vita piena secondo modelli differenti, avendo per caro il valore della progettualità, che consente a ciascuno di modellare la propria esistenza su ciò che si desidera, si cerca, si aspira raggiungere. Se uno sceglie, è libero: ma se l’unica scelta che ha è adeguarsi ad uno o due modelli di vita precucinati, è servo. Se questo è moralismo, son bel lieto di essermi incassato tante volte l’epiteto di “moralista” (accanto a quello di “fascista”, di “malato di reginismo”, e di “disfattista dalle idee aberranti”): io non accetto la magra consolazione del “almeno abbiamo questo” o l’assenza dei paletti classica del “tutto è lecito sempre e comunque” propinata da alcune free-press e associazioni, io voglio una vita intera, voglio la libertà sana che finisce dove inizia quella altrui, voglio che i giovani sviluppino una mente davvero critica, voglio diritti e doveri interi, non autocompiacimenti consolatori risultanti dall’incapacità o la cecità politica e sociale di qualche frociosauro rattrappito (e anche a vent’anni si può essere frociosauri rattrappiti, per inciso, si sappia).
Ho lottato con i soci accanto, insieme, trascinando nei momenti di stanca il meccanismo: lo ribadisco con fierezza, e poco mi cale se questo appare immodesto. Credo di aver fatto il mio dovere, che consta anche nel vogare da solo per gli altri se l’equipaggio talvolta non ce la fa: quando si compie il proprio dovere si deve essere felici di averlo fatto… e quando sono felice, dico sempre a tutti il motivo della mia felicità. E’ abbastanza notorio. Come il fatto che in genere non sono mai, dico MAI soddisfatto di ciò che faccio. Ma stavolta lo sono, perché credo di aver servito il Movimento al massimo delle mie relativissime possibilità.
Quando parlo di movimento, però, non mi riferisco a una sigla, a un coordinamento di associazioni (quelli che si muovono con tempi geologici), o a un gruppo di singoli che si diverte a scendere in piazza a casaccio o vomitare sulle associazioni la propria frustrazione: IL Movimento è l’insieme delle mille correnti di un fiume impetuoso, che nonostante turbinino e si rivoltino spesso su se stesse, spingono con la propria l’acqua a proprio modo, verso un solo obbiettivo comune, la calma e la libertà del mare. Questa è l’unica forma di movimento gay in cui mi posso riconoscere.
Io sono soddisfatto anche di questi tre anni in movimento. E lo sono perché sono stato portavoce di una realtà che ha cambiato il mondo attorno a sé: siamo persino riusciti a portare un pride in provincia di Bergamo assieme ad Agedo, Arcilesbica xx Bergamo, Bergamo contro l’omofobia, lottando in modo efficace e concreto, proprio mentre alcuni nostri ipotetici “compagni” di battaglie sputavano addosso all’idea stessa di quel Pride, o addirittura ci boicottavano con azioni dirette: allegramente e alla faccia loro, ma perdendo un sacco di tempo per parare i colpi, abbiamo comunque dato voce in modo netto a quella parte del mondo GLBT che chiede agli attivisti di ricordarsi bene che la visibilità ci impone anche degli imperativi etici profondi, e non offre solo la possibilità di sfogare il nostro desiderio di autorappresentazione parziale, dimentichi del fatto che scendendo in piazza parliamo anche a nome di tutti gli invisibili, che talvolta sono tali proprio perché NOI non siamo in grado di creare un terreno adatto al loro coming out.
Voglio precisare comunque che non sto dando dimissioni perché sia rimasto schifato da ciò che ho visto nel mondo glbt italiano, sia ben chiaro. Nessuno osi nemmeno avanzare l’ipotesi: ho visto tanto bene fatto da tante piccole realtà autonome e coraggiore, sempre. Noi non saremmo neanche nati se fosse per il senso di disagio che provavamo nei confronti di certi atteggiamenti… sapevamo bene quali paludi avremmo dovuto attraversare insieme, ma il bene è stato maggiore del fango che ci si è attaccato alle gambe durante il cammino.
Chiedo ora di valutare il mio operato.
DEVE essere valutato, in quanto ho avuto un ruolo di responsabilità pubblica nei confronti dei soci Milk e della comunità. In questa valutazione contino i risultati, positivi o negativi, non altro. Chiedo di ricordare che il pettegolezzo o le antipatie e simpatie personali si addicono più alle serate in discoteca, non alla piazza ideale e fisica in cui il movimento dovrebbe stare. Ma non abbiate timore di trarre un insegnamento negativo o positivo dal mio modo di fare il nochiero di questa nave, anche quando ho sbagliato. E’ doveroso lo spirito critico, almeno quanto la coscienza che è legittimo errare. Ed è quindi il momento di affrontare i motivi ultimi delle mie dimissioni, importanti per dare la vostra valutazione.
Sto dando le dimissioni perché credo davvero in quei valori che ho sempre detto di voler trasmettere ai giovanissimi, e quindi trovo giusto ora, dopo tre anni di indirizzo “aresiano” dato all’associazione, dedicarmi all’attivismo tornando a fare ciò che so fare meglio: il volontario nelle scuole e nei servizi di accoglienza. Il Milk infatti ora è solido, come abbiamo ricordato, e chiunque reggerà il timone stando nel direttivo partirà da una base cui si possono solo apportare innovazioni positive, se si lavora bene; innovazioni che io forse non riuscirò nemmeno a comprendere appieno.
Il nuovo presidente si troverà ad affrontare questioni associative, con la nuova squadra appena eletta, che è quasi naturale io non abbia più voglia di ri-affrontare, avendolo fatto a mio tempo in modo più che sufficiente e paziente. Insomma trovo giusto, dopo tre anni, verificata la solidità della struttura, lasciare che essa sia gestita da teste fresche e cariche di idee, che spero abbiano attinto ciò che ritenevano più opportuno e utile dalla forma mentis del sottoscritto e degli altri esponenti “storici” del Milk, comportandosi con la mia impostazione di lavoro come una freccia fa con l’arco: partire bene è fondamentale, ma la funzione della freccia è l’andar a segno, lontano.
Viviamo in un paese dove la norma sono i politici attaccati alla sedia sino alla morte, o dove pare ovvio che si resti presidente di una associazione 8/12 anni, piazzando poi il proprio delfino (o pupazzo) sul trono: per me è invece assolutamente normale che, dopo tre anni, se una persona con ruoli di responsabilità e potere decisionale forte ha seminato bene, chi è attorno a lui raccolga un lascito, ed egli si dedichi ad altro, guardando da fuori o intervenendo nel gioco in altro modo, sotto altre forme, condividendo il suo bagaglio esperienziale con umiltà e sereno distacco.
Lascio questo incarico anche perché sono stanco fisicamente, ragazzi (e un po’ anche psicologicamente): è stata una bella faticata stare sempre sull’onda, sapete? A volte ho esagerato, ma quando credi davvero in qualcosa e senti il fremere dell’entusiasmo delle persone attorno a te, sai che è la scelta giusta.
Dicevo prima che un direttivo nuovo richiede su alcuni punti di ripartire da zero… me ne sono reso conto in questo mese a seguito della mia rielezione (accettata, come ben sapete, dopo una non breve riflessione): io non so se sono in grado di rifarlo e, ve lo dico sinceramente, riconosco il mio limite, non ne ho di certo voglia. La lotta da compiere è tanta e sono sicuro di potermi impegnare, in questo momento della mia vita, solo in situazioni in cui io riesca a camminare su binari che forniscano continuità di metodo, su progetti non enormi, che non richiedano le massicce responsabilità e l’impegno che la presidenza di una associazione ormai così cresciuta chiede (secono i miei canoni di valutazione, ovviamente). L’ho fatto per tre anni di mandato, felice. Tre anni è il tempo giusto da richiedere ad un uomo. Non credo di più.
Se c’è una cosa che l’ultima assemblea generale dei soci ha mostrato, è che il Milk ha scelto di essere la freccia di cui parlavo sopra, in grado di andare oltre i suoi fondatori, cercando strade diverse e nuove (condivisibili o meno sul piano personale, sia chiaro): se così non fosse, avremmo fallito. Ribadisco, camminerò insieme a tutte e tutti i miei compagni di lotta, ma stavolta non stando davanti, bensì nelle retrovie, aiutando magari chi è un po’ più in difficoltà durante l’arrampicata e almeno sinché verrà garantita la fedeltà ai valori fondativi dell’associazione.
Non è triste o negativo o sfortunato scegliere in modo maturo quando sia il momento opportuno e eticamente giusto di passare il timone se si è sereni con se stessi, la propria coscienza e con il mondo: questo è il normale ciclo delle cose, non ci devono essere né vinti né vincitori.
Ho scelto di mettermi a servizio del bene comune, se volevo la gloria avrei fatto altro nella vita.
E al bene comune servirò sempre, sebbene con diverso ruolo. Tutti dobbiamo metterci a servizio del bene comune, lo dice la Costituzione, lo dice l’essere uomo.
E’ fondamentale però anche un circolo di idee e metodi nei ruoli di responsabilità: i principi democratici non possono ridursi al votare a maggioranza, a incavillarsi, e a dire continuamente e fuori luogo la propria opinione, come qualcuno saldamente crede.
Ho insieme a tutti voi arato e seminato, visto crescere i germogli con affetto infinito. Spetta a loro però, ora, divenir robusti con l’esperienza, esattamente come abbiamo fatto tutti noi, non avendo paura di sbagliare, ché l’errore è caratteristico dell’essere umano e quindi dell’attivista, “mestiere” che si impara facendolo. Il terreno lasciato in eredità mi pare sinceramente buono, la responsabilità ora è di chi verrà.
Un po’ stanco guardo il percorso compiuto, e così sorrido: attendo di vedere quale sarà la mia prossima avventura.
Un abbraccio,
Ste
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