Raccontare Keith Haring come semplice discepolo di Andy Warhol sarebbe riduttivo. E’ importante sottolineare chiaramente la rilevanza che ebbe il fondatore della Factory newyorkese nel saper interpretare e rilevare la portata incommensurabile del grande artista nato a Kutztown in Pennsylvania il 4 maggio 1958, da sempre, come lui stesso afferma, impegnato, sin da quando era molto piccolo, il padre fumettista, a disegnare animazioni, creare personaggi e storie. “La vita e il lavoro di Andy hanno reso possibile il mio lavoro. Andy – afferma Haring a proposito di Warhol – aveva stabilito il precedente che rende possibile l’esistenza della mia arte. È stato il primo vero artista pubblico in senso globale”. Keith conosce Andy a Tokyo, in una delle sue tante performance che tiene in diverse parti del Pianeta: in Brasile, a Londra, nel 1983 Keith Haring realizza un murale per la Marquette University a Milwaukee, nel Wisconsin, mentre, nel 1986, produce il grande dipinto sul Muro di Berlino, che ancora separa la Germania Est da quella Ovest, ricco di significato pacifista e di conciliazione umana, una critica ai contrasti tra poteri e potenti internazionali. L’artista, famoso per avere proposto attraverso la sua tecnica minimalista ed essenziale un nuovo e rivoluzionario modo di pensare l’arte, accessibile alla massa, non elitaria, ha dato inizio, quasi in modo istituzionale, pur nella semplicità e nell’informalità naturale di una “controcultura di strada”, una scuola che possiamo definire “Popular Art”, concepibile anche come Hip Pop. I supermercati, la strada, le fermate della metropolitana, sono gli elementi costitutivi e costituenti di una filosofia senza pretesa, non certo distaccata ed esclusiva, fondata su una primitività del segno grafico che si confonde e si integra con il segno verbale, con le parole, ritornando all’intensità ideogrammatica in un progredire seriale.
“I miei disegni non vogliono imitare la vita, cercando di crearla … ciò si avvicina di più ad una idea primitiva … non uso le linee ed i colori in senso realistico”, affermerà a proposito Haring.
La tecnologia avanzata non è disprezzata e snobbata dall’autore del murale per la Marquette University a Milwaukee nel Wisconsin, tanto da vedersi ritrarre per ore in una videoinstallazione, proiettata in pubblico a Times Square, mentre realizza nuove opere on the road nella sua amata New York, o creare una concisa animazione pubblicitaria per i magazzini Big di Zurigo in Svizzera.
Keith Haring è sinonimo di “bambino raggiante”: sono sue le opere in cui “radiant boys” danzano, si abbracciano, si baciano, fanno l’amore, si prendono per mano, illuminati da intensi raggi solari luminescenti e cromaticamente vivaci, quasi circondati da metafisiche auree bianche, stilizzati nella loro struttura compositiva, tornando all’arte dei graffiti rupestri, ricchi di significato critico e di denuncia verso un’esistenza sofferta di un presente contemporaneo contraddittorio. Le sue opere non mancano di ironico e sopraffino cinismo, dove appare sempre un barlume di speranza di riscatto, pur assaporando l’intensità angosciante e frustrante della miseria umana.
Quelle di Keith Haring sono performance temporanee, destinate a quella stessa massa che vedrà nel loro consumo un giusto ingresso in un panorama, quale quello della produzione artistica, non più escludente, impermeabile alla popolarità della sua funzione. Le installazioni sono fatte con gesso bianco su carta nera applicata su vecchi manifesti pubblicitari presenti lungo i percorsi della metropolitana newyorkese, suo atelier e laboratorio performativo per eccellenza. Non esiste, in questo, nessun tipo di volontà educatrice nell’autore, come si può apprendere dagli stessi Diari che Kaith scrive a soli 20 anni, ancora lontano da quel successo internazionale a cui è destinato nel corso della sua brevissima vita; ma, bensì, è riposta una sorta di speranza di incidere nelle coscienze per un loro riscatto, forma civilizzatrice dell’arte, rappresentando tutto ciò che è quotidianamente esistente. Lo stesso autore dirà: “l’arte celebra l’uomo, non lo manipola”. Haring non ha mai amato l’arte del consumo, quella mainstream, utile al profitto istantaneo senza contenuto, pur passando per un artista non scevro al business. La Commercial-Art non prende sopravvento su Haring decidendo, così, dopo aver visto una retrospettiva dei dipinti di Pierre Alechinsky al Carnegie Museum, di iscriversi alla School of Visual Arts di New York.
La sua formazione lo vede prima frequentare la scuola artistica di Pittsburgh in Pennsylvania per solo un anno, poi trasferirsi a New York, dove si iscriverà in diverse scuole d’arte, connaturando con la Grande Mela il proprio stile pittorico performativo e di vita. Haring si innamorò dell’arte moderna visitando il Museo di Washington DC. Nelle sue realizzazioni si riscontrano eredità poliedriche, lo stile fumettistico, l’influenza della tradizione Maya, l’incisività dei pittogrammi giapponesi e, infine, la cromaticità vivace di un Picasso nella sua prismaticità plastica di rappresentazioni popolate da forme antropomorfe semplici. Haring ama realizzare le sue opere in una sola giornata perché vuole che il pubblico, nella sua composizione sociale plurale, nella sua accezione interclassista, lo guardi e lo osservi durante la produzione artistica. Lui stesso affermerà: “quando io ho disegnato, io ho disegnato nell’arco di una giornata il che significa che lì ci sono state sempre persone che hanno osservato, dal bambino piccolo all’anziana signora, allo storico dell’arte”. Haring inizierà a dipingere nel 1985, su invito ed esortazione di Basquiat e dello stesso Warhol, facendo la sua prima personale alla Tony Shafrazi Gallery e producendo sculture di acciaio dipinto con sgargianti colori alla Leo Castelli Gallery di New York. Parteciperà alla Biennale di Parigi e creerà scene per Sweet Saturday Night, Brooklyn Academy of Music a New York, The Marriage of Heaven and Hell e Ballet National de Marseille, Francia.
Da Andy Warhol lo distanzierà il fatto di aver dato una svolta maggiore e più evidente alla dimensione popolare dell’artista, non un intellettuale cattedraticamente elevato, ma disposto a proporre un’arte che sia per tutti, fine verso cui ha voluto sempre indirizzarsi.
Questo principio diventa per Haring un assioma definibile con chiarezza, diventando lui stesso, artista, il primo canale di comunicazione della propria arte. I bambini bianchi dipinti in diverse composizioni saranno i bambini radioattivi tanto discussi, ma densi di un significato sociale e umano senza pari. Prende parte, quindi, a una campagna per la liberazione del Sud Africa stampando 20000 manifesti “Free South Africa”. Parteciperà insieme al suo insostituibile compagno d’arte Andy Warhol alla mostra “Terrae Motus” in aiuto ai bambini terrmotati dell’Irpinia, nel 1980. Dpingerà ad Harlem sulla grande murata della East Harlem Drive e nel 1987 realizzerà a Parigi una parte dell’Hospital Necker.
Keith Haring fonderà il suo famoso negozio d’arte, Pop Shop, dove venderà a basso costo gadget e riproduzioni delle sue opere, realizzate con quei materiali, plastica, metallo e oggetti riciclati e di scarto, che lo hanno visto impegnato nel definire semplici installazioni a soli vent’anni in uno studio sulla Ventiduesima Strada, luogo quasi sacro per un tempio artistico dove il pubblico dialogava e si confrontava direttamente con l’autore, che viveva della dimensione urbana e suburbana, in un concetto anche esistenziale.
L’arte diventa parte integrante nella vita quotidiana di ognuno. Keith Haring deve essere analizzato come artista partendo dalla sua persona. E’ omosessuale dichiarato e vive la sua omosessualità nel cercare, spesso, di provocare e cambiare la cultura pervasiva e omologante della produzione artistica massificata. Ne sono esempio i murales trasgressivi, sensuali ed erotici, che realizza nei bagni del Gay Lesbian Community Service Center nel Greenwich Village, poco lontani da un’altra opera dai toni più miti proposta sulla parete di una piscina. E’, questa, una celebrazione estetica quanto sostanziale del sesso, parte integrante della sua vita e del suo stile disinibito e senza limiti, spesso promiscuo, non conformato, sempre estroso, irruente, altamente innovativo e dirompente. Keith Haring vive la sua omosessualità senza filtri, in modo non nascosto, clandestino, a differenza di tanti altri artisti suoi contemporanei. Amerà il sesso e amerà farlo con coloro che incontrerà nella Grande Mela: intellettuali, giovani, orsi, cub, cubby, admirer, neri, bianchi. La sua curiosità fisica porterà a evidenziare nella sua poeticità una dimensione sempre provocatoria e libera, molto spesso dissacrante. L’arte rimarrà il punto di riferimento attorno a cui ruoterà la sua dimensione vitale.
Keith affermerà: “Nella mia vita ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma ho anche vissuto a New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non prenderò l’Aids io, non lo prenderà nessuno”. In un’intervista rilasciata a Rolling Stone, poco dopo l’apertura del suo store, nel 1986, dichiarerà di essere sieropositivo portando questa sua situazione salutare a essere motivo di mobilitazione e di un suo impegno a sostenere la ricerca contro l’AIDS, attraverso Act Up, e fondando la Keith Haring Foundation a favore di bambini sieropositivi. L’arte sconfinata, immensa nella sua produzione sempre soggetta a nuove dimensioni, in una tensione estetica e di ricerca incondizionata e senza limiti, un amico disegnatore, Joe, rappresenterà Keith Haring come un autore dalle “mani senza frontiere”, frontiere certamente georgrafiche, ma anche ideali, intellettuali, conoscitive, vedrà l’artista statunitense disegnare nelle situazioni più disparate, ma reali, fisiche, giornaliere e quasi familiari: dalle vetrate della National Gallery of Victoria di Melbourne in Australia ai tessuti per una collezione dello stilista Stephen Sprouse, all’etichetta d’artista per i quotati vini Château Mouton Rothschild; da un muro nell’ospedale per bambini del principato di Monaco ad una BMW della serie Art, fino ad arrivare a un dirigibile che vola sopra Parigi, non dimenticando l’opera eseguita presso un casinò belga, non lontana dalle decorazioni originali di Réné Magritte, e le decorazioni di una giostra per un parco di divertimenti a tema in Germania. Il lato camp, quasi epifania di quell’affezione per il kitsch in senso deliberato, consapevole e sofisticato, lato imprescindibile dall’analisi di Keith Haring come uomo preartistico, si evidenzia in tutta la sua portata nell’invito a forma di disco inciso a 45 giri e realizzato per la festa di compleanno della principessa Gloria von Thurn und Taxis.
Ricordiamo la sua ultima opera, una permanente e, come tale, realizzata non in modo effimero e caduco, sulla parete esterna del Convento di Sant’Antonio a Pisa, Tuttomondo, dedicata alla Pace Universale. I colori non sono delle stesse tonalità impetuose, ma rispettano il contesto urbano mite e dalle tonalità pacate. Le figure rappresentate sono le diversità, le varie dimensioni dell’essere e delle esistenze che convivono, si amano e si incontrano contaminandosi in una pacifica convivenza. Un mondo ideale è quello che viene rappresentato nel testamento di Keith Haring, un vero e proprio inno alla vita, che lui amò profondamente e completo in modo edonistico ed emancipato, non superficiale e attento alla dimensione umana. Dopo aver realizzato i disegni per i quattro orologi Swatch Watch USA con gli omini stilizzati e movimentati al posto delle ore, rimasti simboli di una pop art tutta anni 80, priva di pregiudiziali ideologiche e di pregiudizi confessionalistici, dopo aver occupato Time Square costituendo “Time Square Show”, quasi un “work shop” antelitteram della realizzazione di installazioni provocatorie, Haring arriverà a Milano, ospite della galleria Salvatore Ala, nel giugno 1984, diventando frequentatore del noto locale d’avanguardia, Plastic, che considererà il primo club europeo per eleganza e distinzione, e, infine, ridisegnando lo store di Fiorucci in Corso Vittorio Emanuele con graffiti sulle pareti, colori appariscenti e fosforescenti nell’arredamento.
Ricordiamo Keith Haring nella sua immagine di artista popolare che ha sdoganato il fare arte non concettualistico ma, bensì, post moderno, relativistico e comunemente usuale, con le parole di Elio Fiorucci, in un’intervista rilasciata al mensile “Stilearte” del 2005 in riferimento a quell’evento: “Invitai Haring a Milano, stregato dalla sua capacità di elevare l’estemporaneità ai gradini più alti dell’arte. Egli diede corpo ad un happening no stop, lavorando per un giorno e una notte. I suoi segni “invasero” ogni cosa, le pareti ma anche i mobili del negozio, che avevamo svuotato quasi completamente. Fu un evento indimenticabile. Io feci portare un tavolone, fiaschi di vino, bicchieri. La gente entrava a vedere Keith dipingere, si fermava a bere e a chiacchierare. Ventiquattr’ore di flusso continuo; e poi i giornali, le televisioni…”