La Signorina Giulia, il testo drammaturgico che apre al naturalismo e al verismo la scena teatrale, scritto nel 1888 da August Strindberg, è in scena allo Spazio Tertulliano di Milano fino all’8 novembre. Abbiamo intervistato il regista e uno degli attori principali, impersonando il servo, Jean, Giuseppe Scordio: con lui abbiamo parlato del ruolo seguito, del rapporto col testo, del significato di fare regia e, soprattutto dell’attualità del dramma e dei suoi significati simbolici e allegorici, essendone ricco il racconto.
Il lavoro sul personaggio come è avvenuto da parte tua, che sei uno dei protagonisti in scena e regista dello spettacolo?
È avvenuto senza troppi studi: si legge il testo e si sentono le sonorità delle parole, cercando di metterle insieme come fossero delle note musicali, cercando, altresì, di superare il superato e il convenzionale. Ho lavorato ascoltando la psicologia e i passaggi emotivi dei personaggi, cercando di tenere colori e sentimenti che non sono i più naturali, come la delusione, il disonore. Sono colori difficili da rappresentare, ma che da noi vengono fuori senza studiare un testo, ce li abbiamo dentro, condizionati dagli eventi.
Il lavoro con le attrici: come si è realizzato?
Ho una formazione classica e mi hanno insegnato che prima di scegliere di rappresentare un testo si deve pensare all’attore, in questo caso l’attrice, protagonista: se si sbaglia quella scelta il testo viene a non sussistere. Questa è la parte più importante. Ci sono molte attrici brave, ma ci sono meno attrici giuste. La distribuzione è determinante per uno spettacolo e, quando Sonia, che impersona Giulia, ha accettato di fare questa parte, ho pensato di ufficializzare il mio lavoro e il mio progetto; altrimenti avrei cambiato la programmazione. Sonia ha delle qualità indiscutibili, sicuramente non è contessa come la signorina Giulia, ma ha una propria bellezza e una propria eleganza, una profondità che mi ha dato la possibilità di farle fare questo ruolo, uscendo dallo stereotipo dell’aristocratico, e descrivendone l’umanità nelle sue mille sfaccettature, andando a toccare quei sentimenti più nascosti, quei lati oscuri dell’anima che non si risolvono semplicemente col pianto o con il riso.
Il testo: quale è l’attualità del dramma?
Oggi, come allora, siamo pieni di gente che tenta la scalata sociale e di gente, altra, che, dietro la maschera dello star bene e di un’armonia, nasconde disagio. Davanti a dei sentimenti universali come l’amore vero e assoluto non si può fare altro che togliersi la maschera e, in questo contesto, esce quell’uguaglianza che esiste in tutte le latitudini.
Quale equilibrio esiste, secondo te, tra pubblico, regia e recitazione?
Non sono un politico, mi sento parte di quel pubblico nazional popolare e cerco di rappresentare ciò che sento e ciò che potrebbe essere sentito da parte della maggioranza del pubblico. Per la parte di pubblico più preparata e più di nicchia cerco di affidarmi all’autore e, non tradendo la natura di quest’ultimo, penso che cosi si possa arrivare a un risultato ineccepibile per chiunque. Noi siamo al servizio dell’autore e, secondo me, quando si vuole rappresentare “i grandissimi” occorre seguirli alla lettera e, questi, ti accompagneranno, cosi, nel viaggio. Il teatro di ricerca non deve diventare ricerca del teatro: solo conoscendo i grandi autori puoi permetterti di interpretarli.
Parliamo del tuo personaggio, Jean: come lo rappresenti, cosa pensi di lui, come hai lavorato su di esso, tu regista e, allo stesso tempo, interprete di una figura fondamentale del dramma?
Diversamente dalla maggior parte dei colleghi, non amo recitare, ma ci sono personaggi che sento particolarmente. Non potendo scegliere il miglior interprete a livello mondiale, per varie questioni, se tocca a me farlo, lo faccio. Il personaggio è il regista del dramma, ma è al servizio della protagonista, Giulia, che è, come si suol dire, “sdraiata sul titolo”: spostare l’asticella dalla parte del servo, a livello di interpretazione, sarebbe un errore imperdonabile in quanto lo spartito stonerebbe.
I simboli, ce ne sono molti in scena e nel testo, che cosa significano secondo te a livello allegorico e quali sono i più importanti: dal falco alle assi che butti per terra, dall’uccellino al campanello finale?
Il falco è il simbolo del punto verso cui il servo vuole arrivare, una posizione sociale a lui vietata, generando in lui un’ossessione, soprattutto quando, acculturatosi e sentendosi meritevole per coprire un ruolo sociale maggiore, vuole raggiungere a ogni costo questo obiettivo. L’uccellino è un simbolo che Strinberg ha messo in scena in modo puramente naturalistico, l’uccellino non è vero e reale nel testo e, se fosse altrimeni, mi risentirei con l’autore. Io ho tradotto questo segno attraverso la dimostrazione del livello di follia che la signorina Giulia raggiunge al termine del dramma. Ho immaginato che tale simbolo fosse solo una suggestione e che, per riportare Giulia alla realtà, dovessi compiere un gesto atroce e utile a distoglierla. Le assi che butto per terra sono dovute all’ascolto di Jean del racconto della storia passata e vissuta da parte di Giulia, storia che il servo già conosceva origliando dietro le porte e che, in qualche modo, quando la signorina la racconta in scena, il servo si trova a confermare quella stessa storia che lui ha sempre pensato fosse la verità: il gesto è di impeto e vuole essere la conferma che, se le cose non fossero andate cosi come Giulia racconta, la storia sarebbe stata diversa con un padre meno feroce e con una pace domestica presente nella casa padronale.