Attendiamo come Circolo di Cultura Omosessuale Harvey Milk di ospitare Antonio Cecere e Paolo Ercolani per un incontro sul tema della laicità, in uno sguardo filosofico e storico, con attenzione particolare alla situazione attuale del nostro Paese. “L’Italia s’è mesta” è il titolo dell’appuntamento con due figure importanti nel mondo della laicità e degli studi filosofici su tale tema: è con tono scherzoso, quasi in chiave paradossale, che si è voluto prendere un ritornello dell’inno nazionale, «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta!», “per rimarcare – ci spiega Paolo Ercolani – quanto i toni comprensibilmente enfatici ed entusiastici dell’inno nazionale sono in palese contrasto con la realtà del Paese”. Parleremo anche della storia filosofica della laicità, cercando quel filo conduttore tra due percorsi non nettamente contrastanti, “la filosofia nella laicità e la laicità nella filosofia” che, ci spiega Antonio Cecere, “si incontrano nel significato del termine “laicismo”. Li abbiamo intervistati, a confronto, attendendo di poterli avere nostri ospiti, Giovedì 14 novembre 2013 alle ore 18, presso la sede Guado di Via Soperga 36 Milano.
L’Italia si è mesta: perché questo titolo?
Antonio: La crisi economica globale, che ha investito l’intero mondo occidentale, sta incidendo profondamente sullo stile di vita dei cittadini e sta mettendo a dura prova l’intera società. Il nostro Paese ha avuto la sventura di trovarsi, nel momento dell’emergenza, con una classe dirigente con un’età anagrafica troppo avanzata e chiusa in se stessa e perciò incapace di guardare alla crisi con il coraggio per fare cambiamenti e portare innovazioni. Un paese vecchio a tutti i livelli dirigenziali e burocratici. Persino i “nuovi rivoluzionari” della Rete hanno un leader quasi settantenne. Un paese malinconico bloccato intorno alla resa dei conti di gruppi di potere che hanno ipotecato il futuro dei propri nipoti.
Paolo: Il titolo vuole riprendere in maniera polemica il verso contenuto nel nostro inno: «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta!». Anche per rimarcare quanto i toni comprensibilmente enfatici ed entusiastici dell’inno nazionale sono in palese contrasto con la realtà del Paese. Un Paese spento, triste, che non conta nulla a livello internazionale negli ambiti che contano (economico, politico, tecnologico), e che ha perso mordente anche nel settore in cui potremmo essere i primi al mondo: la cultura. Il vero dato è che siamo un Paese che, a tutti i livelli, non ha saputo tenersi al passo coi tempi dopo il grande passaggio epocale rappresentato dal 1989. Fino a quel momento siamo stati protetti, tutelati ed economicamente foraggiati grazie alla nostra posizione geografica, strategica nel contesto della «guerra fredda». I limiti della nostra classe politica ed imprenditoriale, ma vorrei dire i limiti strutturali di un Paese mai nato unito veramente (che non si è mai fatto nazione, se non forse nel calcio quando gioca l’Italia), venivano compensati e persino mascherati dal contesto del mondo pre-Ottantanove. Dopodiché, con la fine del mondo diviso in blocchi, con la nascita della nuova economia, dell’Europa unita e di un mercato che non tutelava più i singoli stati appartenenti alla Nato, sono venuti al pettine tutti i nodi di un’Italia inadeguata: politicamente cialtrona, incompetente e truffaldina; imprenditorialmente poco coraggiosa e anacronistica; culturalmente impoverita e svuotata da decenni di tagli sciagurati alla ricerca, alla scuola e all’innovazione. Siamo un Paese anacronistico, imbevuto di meccanismi medioevali che ci relegano nella marginalità di un mondo completamente cambiato. In fondo credo che paghiamo quella che io chiamo «la cultura della chiesa»: non solo la realtà ecclesiastica, ma anche la chiesa comunista, e in genere una cultura nazionale che in ogni ambito cerca tutele superiori, protezioni, salvacondotti e quant’altro. Ma l’epoca delle tutele superiori è finita (pensiamo all’America, o alla stessa Nato). Senza la capacità e la volontà di assumerci le nostre responsabilità, individualmente e come collettività. E’ cambiato il mondo, sono mutati radicalmente gli scenari, e in questo scenario completamente rivoluzionato l’Italia si è tutt’altro che desta!
La situazione riguardante la laicità in Italia porta il nostro Paese a essere così “mesto”?
Antonio: La laicità del nostro Stato è sancita nella Costituzione dall’art 7. Il fatto che questo principio politico ci appaia più come un enunciato formale che come un’effettiva condizione dei rapporti di forza fra politica e religione potrebbe dipendere da una questione culturale prima che istituzionale. Avremmo bisogno di far crescere nel popolo una coscienza civica tale che renda tutti consapevoli della ricchezza di quei valori che sono alla base della nostra carta costituzionale. Per far diventare effettivo l’art.7 abbiamo bisogno che ognuno di noi senta come propri i valori dell’art.3, quello che sancisce i diritti inviolabili dell’uomo. La mancanza di una salda cultura dei diritti genera una conflittualità sociale su tematiche che riguardano la sfera individuale delle scelte circa la propria esistenza. Senza laicità gli individui non sono liberi di scegliere il proprio stile di vita e spesso avvertono la società politica come il luogo della costrizione e non del libero confronto.
Paolo: La situazione della laicità è uno specchio fedele di quanto ho detto sopra. Quella che ho chiamato «cultura della chiesa» ha finito col costruire un Paese in cui si ragiona sostanzialmente in termini collettivi, di società, di gruppo a cui delegare la soluzione dei problemi (il parlamento, la scuola, le istituzioni, lo stato, la chiesa, il partito etc.). Alla cultura della chiesa dovrebbe contrapporsi un’etica individuale che ci faccia essere finalmente cittadini (e non fedeli, tifosi, scolari, elettori, consumatori), persone interessate a informarsi, critiche, autonome, che si fanno carico della responsabilità della propria esistenza a tutti i livelli. Se in Italia si fosse lavorato per affermare tale cultura, non avremmo tutti questi problemi di riconoscimento della laicità: laico è termine che riconduce al popolo, a colui che è componente di una comunità libera e coesa, in cui si prescinde dal colore della pelle, dal genere sessuale, dai gusti sessuali, dagli orientamenti religiosi, persino dalla condizione di censo e di livello di istruzione. In Italia siamo fermi alla ricerca continua del diverso, di colui da biasimare, condannare o escludere, fondamentalmente perché la cultura della chiesa vuole inquadrarci in quanto peccatori o devianti rispetto a delle presunte norme morali superiori. Quando in realtà siamo soltanto cittadini che devono rispondere di fronte alla propria coscienza e alla legge.
La filosofia nella laicità e la laicità nella filosofia: ci potete dare una visione generale?
Antonio: Potrebbe essere utile ripercorrere gli sviluppi storici di questo concetto, magari partendo da Guglielmo di Ockham e passando per Voltaire fino a noi. Io però preferisco cercare un termine che unifichi le due direzioni. La filosofia nella laicità e la laicità nella filosofia si incontrano nel significato del termine “laicismo”. Una vulgata clericale ha cercato di dare un’accezione negativa al termine di origine francese. Al contrario laicismo è il termine con cui possiamo indicare il principio dell’autonomia di ogni attività o cultura umana. In pratica parliamo della possibilità di formulare statuti autonomi e indipendenti per arti, mestieri, associazioni, partiti politici e conoscenze di ogni genere senza l’intervento di autorità esterne. Da questo punto di vista il laicismo è il principio su cui si fondano le attività umane indipendenti e che riconoscano l’indipendenza delle altre attività. Questo principio è il fondamento per stabilire il valore dell’indipendenza della ricerca scientifica dalle ideologie e in generale la possibilità dell’autonomia del sapere umano dalla politica, dalla religione e da ogni pretesa dogmatica.
Paolo: Filosofia e laicità dovrebbero essere termini sinonimici. I filosofi antichi sostenevano di non reputare alieno da sé nulla di ciò che gli presentava la grande varietà del genere umano. Il popolo umano (qui l’etimologia del termine laico gioca un ruolo essenziale) si riconosce per degli aspetti comuni che sono consustanziali alla vicenda umana fin dalla notte dei tempi: siamo tutti gettati in un’esistenza di cui fatichiamo a cogliere i presupposti, il senso e la mèta ultima. Angosciati di fronte a quel terribile fardello democratico che è la morte (perché essa non opera esclusioni di sorta, ci accarezzerà tutti), dissimuliamo questa nostra scomodissima condizione creando dei dogmi a cui ci sottoponiamo noi per primi. Dogmi ideologici, religiosi, economici. Questa è in fondo l’essenza dell’uomo: quella di essere homo religiosus, sempre pronto a raccogliere elementi partoriti dalla fantasia per costruire un Totem a cui votarsi, a cui delegare buona parte della nostra libertà in nome di una presunta salvezza finale che ci verrà garantita. La filosofia dovrebbe servire proprio a questo, a impedire all’uomo di «staccarsi dalla terra» (per parafrasare lo Zarathustra di Nietzsche), di affidarsi a entità superiori che mortificano e delegittimano la sua dignità di essere umano pensante. Non è un caso, credo, che proprio oggi la filosofia, e soprattutto nel nostro triste Paese, stia perdendo di interesse e attualità presso la stragrande maggioranza della popolazione.
Quali sono i filosofi a cui maggiormente, oggi come oggi, si dovrebbe fare riferimento per riportare la laicità a essere parte fondante della nostra cultura?
Antonio: La filosofia moderna ha tantissimi campioni in questo campo. Per rimanere nello stretto giro della filosofia contemporanea ho alcuni nomi a cui mi sento legato: John Rawls, Ronald Dworkin, A. Sen, Giulio Giorello, Carlo Augusto Viano, Marcel Gauchet, Michel Foucault e Slavoj Zizek. Un posto privilegiato lo vorrei però riservare a Paolo Flores D’Arcais, il quale non è solo l’autore di molte pubblicazioni sul tema ma è soprattutto il creatore del più importante veicolo di idee degli ultimi trenta anni: MicroMega. Su questa rivista scrivono i più importanti intellettuali del mondo e si è innescato un dibattito fondamentale per la crescita della cultura laica nel nostro Paese.
Paolo: Due nomi su tutti. Friedrich Nietzsche e Giacomo Leopardi. Di quest’ultimo viene spesso dimenticato o rimosso il grande apporto filosofico in direzione di una laicità che è drammatica, angosciante, ma anche estremamente dignitosa ed eroica condizione dell’uomo che non rinuncia al pensiero autonomo e critico. Certo, è bene dircelo chiaramente e senza infingimenti: aderire a una filosofia laica vuol dire non chinare la testa e non distogliere lo sguardo di fronte a una condizione, la nostra di essere umani, che presenta tanti e terribili elementi di incertezza, assurdità, contraddizione irrisolvibile per le nostre limitate capacità. Chi cerca sorrisi facili, divertimento (anche nel senso inteso da Pascal, oltre in quello comunemente inteso), allegria a tutti i costi, preferisce consegnarsi corpo e anima alla «società dello spettacolo», alle nuove chiese della tecnologia e del mercato (che si affiancano alla Chiesa religiosa), sempre pronti a promettere nuova crescita, sviluppo continuo, ritorno del benessere e della ricchezza, e alla fine il regno dei cieli. Comodo, vivere così. Altro che vendere l’anima al diavolo, così la subaffittiamo alle tante divinità che ci vengono proposte. Un tot di libertà, come ben sapeva Freud, in cambio della comoda e rassicurante delega della responsabilità e della fatica di vivere a entità presunte superiori. Nietzsche e Leopardi non garantiscono divertimento a chi li legge, non nel senso banale del termine. Ma di sicuro la persona che li legge con attenzione raccoglie gli elementi per una crescita personale importante. In nome della libertà!
La laicità e i diritti civili, soprattutto quelli della comunità LGBT: ci sono prospettive e come si individuava il rapporto tra le due componenti nella filosofia della laicità?
Antonio: Questo è senz’altro il punto centrale del nostro incontro del 14 novembre. Senza eccessive anticipazioni posso affermare che l’emarginazione della comunità LGBT, da parte della società contemporanea, risponde ad un atavico sistema di formazione dell’ordine culturale dominante all’interno di una data comunità politica. Sin dalle prime società arcaiche greche ogni comunità relegava i “diversi,” i “malformati” in un isolamento culturale al fine di definire il “Pharmakos” cioè il famoso capro espiatorio da colpire nei momenti di conflitto e di crisi interna al sistema. La diversità culturale LGBT è oggi pensabile come strumentale a tenere in piedi una definizione di normalità basata su principi tutt’altro che laici, piuttosto direi su principi mutuati dalla mentalità della mortificazione del piacere individuale tipica delle religioni monoteiste.
Paolo: Non è mai esistita in senso proprio, e in forme organizzate e coese, una «filosofia della laicità». Ci sono stati filosofi più o meno laici, che rispetto ai diritti civili ci hanno permesso di compiere dei passi in direzione del riconoscimento dell’essere umano in quanto persona. Il caso dell’Italia, è inutile nascondercelo, fa storia a sé, soprattutto rispetto alla condizione, all’identità e al riconoscimento dei diritti della comunità LGBT. Si tratta di un tema mai affrontato con sistematicità e scientificità (se si escludono alcune frange marginali legate al pensiero femminista degli anni Settanta del secolo scorso), che oggi ci fa essere di fatto un Paese in cui la media delle persone è piena di pregiudizi, bene che vada, o persino rancori e disprezzo verso anche solo l’ipotesi di riconoscere i diritti di cittadinanza a chi ha gusti sessuali considerati fuori dalla norma. E qui torniamo al punto di partenza: finché non ci renderemo conto di essere cittadini di una unica e grande nazione chiamata umanità, saremo sempre pronti a dividerci e a discriminarci sulla base di distinzioni insensate e innocue. Come quella di con chi decidiamo di condividere il nostro letto. Come se da questo aspetto potesse dipendere anche solo una parte marginale dei destini del mondo. “Gente zotica e vil”, diceva Leopardi, e io aggiungerei terribilmente provinciale. I cervelli di troppi italiani, ormai, come del resto il Paese nel suo insieme, appartengono alla provincia del mondo che conta e che comprende.
Oggi qual’è il rapporto tra filosofia e laicità: esiste una nuova cultura filosofica?
Antonio: La filosofia è ricerca critica e antidogmatica; quando la laicità corrisponde ad un atteggiamento critico ed antidogmatico potremmo addirittura sostenere che i due termini sono sovrapponibili e non c’è bisogno di un nuova cultura filosofica, bensì c’è bisogno di un’autentica filosofia.
Paolo: La mia risposta è netta e categorica: no. Siamo nell’epoca di un nuovo politeismo, di rinnovate forme estranianti di teologia che si richiamano sostanzialmente a tre sfere dominanti: la teologia economica (il dio Mercato), la teologia tecnologica (il dio Rete) e infine quella religiosa (le vecchie divinità in nome delle quali ci si divide, ci si odia e uccide). Il mondo globalizzato ci pone di fronte a un nuovo dio rispetto al quale dobbiamo sacrificare ogni cosa che sia umana: il Mercato. Viviamo di esso e per esso, rinnovando la vecchia contraddizione. Quella contraddizione per cui in teoria Dio dovrebbe essere amore, e richiedere che gli uomini si amino, esattamente come il Mercato dovrebbe rappresentare un prodotto umano finalizzato al benessere collettivo. E invece, pensiamo a quante vite sacrifichiamo sull’altare di queste divinità partorite dalla fulgida e perversa fantasia umana!
Diritti civili e diritti LGBT: quali prospettive culturali nel nostro Paese e come affermarli?
Antonio: Questo punto è il più interessante della nostra discussione. La comunità LGBT ha il grande compito di formulare al suo interno una prospettiva culturale tesa alla chiarificazione del proprio ruolo nella società moderna. Sicuramente io vedo in questa comunità l’avanguardia per una battaglia per l’affermazione definitiva dei diritti civili. Una battaglia che si basi sull’affermazione dell’identità dei singoli a partire dal diritto all’autodeterminazione, non solo nel senso di uno spazio privato di autonomia ma anche nel senso della possibilità di affermare pubblicamente, per chiunque, le proprie preferenze e la propria personalità.
Paolo: Anche qui la risposta è categorica. Al momento, stando così le condizioni culturali e politiche, è utopistico e persino ridicolo parlare di prospettive concrete per l’affermazione dei diritti LGBT. In una democrazia rappresentativa la codificazione dei diritti sociali è demandata all’attività dei partiti politici, che nel caso italiano hanno più o meno tutti, salvo rare eccezioni, derubricato dalla propria agenda un progetto serio e sistematico di affermazione della laicità. Da una parte c’è la cosiddetta destra, appiattita e genuflessa rispetto alle istanze del Vaticano. Dall’altra c’è la pseudo-sinistra, a cui è venuto meno il dogma comunista e che non mi pare abbia l’intenzione di manifestare un’adesione seria e ragionata rispetto a politiche volte a tutelare i diritti delle minoranze. Un paradosso solo apparente, calcolando che tutti oggigiorno sono pronti a definirsi liberali. Il liberalismo è stato e dovrebbe essere un movimento che tutela proprio le minoranze, che afferma la libertà individuale da ogni angolazione. Nel nostro Paese, invece, si tratta semplicemente di una bandiera di cui ammantarsi in mancanza di altri valori forti e fondanti, ma che all’atto pratico abbiamo sempre svilito con una cultura della chiesa pervasiva e dominante. Tutti, compresa la sinistra, si sono piegati ai diktat della teologia economica, che per definizione è incurante del benessere individuale a tutti i livelli, figuriamoci per quanto concerne gli individui che appartengono a delle minoranze. Occorrerebbe un nuovo manifesto teorico e programmatico di una sinistra moderna e disposta ad accogliere le grandi sfide della modernità. Davvero troppo per un Paese che ancora naviga nella notte lunga e buia della Repubblica. La destra, o se vogliamo la parte conservatrice del nostro Paese oscilla fra populismo e affarismo spesso non alieni dalla violenza (verbale e fisica). La sinistra oscilla fra i valori vetusti dell’ideale comunista e un rinnegamento acritico e fondamentalista di quanto di buono essa ha saputo esprimere nella storia patria (soprattutto in ambito di diritti sociali, del lavoro, della giustizia sociale). In questa condizione non vedo margini per poter parlare in maniera credibile di prospettive per i diritti dell’individuo in genere, figuriamoci degli individui appartenenti alla comunità LGBT.
Cosa significa oggi essere laico, termine che vuole dire etimologicamente “appartenente al popolo”?
Antonio: Nell’età moderna essere laico ha significato soprattutto essere un uomo “tollerante” e “liberale”, oggi dovrebbe significare essere un uomo consapevole che le differenze umane rappresentano la ricchezza della Democrazia.
Paolo: Essere laico oggi dovrebbe voler dire non appiattirsi ai diktat della teologia economica, ed in genere di un pensiero unico che trasforma l’essere umano in un mezzo per la realizzazione di fini che sono quelli del Mercato, delle religioni, della tecnica, insomma di entità impersonali e meccaniche che permettono ai pochi che detengono potere e ricchezza di esercitare nuove forme di dominio verso la maggioranza dei cittadini ridotti a consumatori passivi, a fedeli acritici, a navigatori di un mare (quello della Rete virtuale) la cui rotta è sconosciuta ai più. E la cui mèta è raggiungibile solo al prezzo di sacrificare gli interessi, i valori e in generale il benessere dell’uomo in carne e ossa.
Intervista a cura di Alessandro Rizzo