Pubblichiamo questo articolo di un nostro sostenitore: le riflessioni personali di un insegnante in una scuola media di Napoli, etero, che ha dovuto porsi da “esterno” una serie di domande sulla canzone di Povia presentata all’ultimo festival di Sanremo. Crediamo che la sua sia una testimonianza utile a stimolare ulteriori e più pacate riflessioni su un episodio che per il movimento glbt italiano resta l’ennesima sonora sconfitta causata da un modo di agire che ha dimostrato già abbastanza la propria inefficacia e pericolosità: perché non tramutarlo in una occasione di sana e vera autocritica e crescita?
Il Festival di Sanremo è finito ed io, insegnante di scuola media, mi sono trovato a riflettere su un fenomeno che avevo sottovalutato. Non avevo seguito la gara (non l’ho mai seguita, per la verità) ed ero convinto che le polemiche scatenate dalle associazioni gay sul “caso-Povia” avessero solamente aiutato il cantante a raggiungere una celebrità non meritata portando la canzone alla conoscenza di persone che, come me, non avrebbero altrimenti conosciuto il “poviapensiero”. Dissi anche: «Non sarebbe stato meglio ignorarlo per far sì che nessuno lo considerasse?». Dovetti ricredermi in classe, ad un paio di giorni dalla fine del Festival.
I ragazzi della II media in cui insegno mi accolsero cantando “Luca era gay” con molta leggerezza, svuotando il termine e la frase di ogni significato. Ripetevano le parole del testo meccanicamente, le cantavano soltanto perché erano state consacrate dalla televisione. Nella loro ottica, infatti, tutto ciò che passa in televisione è bello e giusto. Quando uno di loro mi chiese, addirittura, cosa significasse quel testo che cantava oramai da una settimana mi resi conto definitivamente di aver sottovalutato l’influenza che una canzone come quella di Povia poteva avere non solo sulla società ma anche sul mio lavoro di insegnante.
Nella scuola media, infatti, il lavoro principale di un insegnante è contribuire attraverso le varie discipline alla formazione globale dell’individuo. Ma, lo confesso, non mi era mai capitato di tenere una lezione esclusivamente sull’omosessualità. L’identità sessuale dei ragazzi di quell’età, nella maggior parte dei casi, non è ancora pienamente definita e la consapevolezza delle pulsioni sessuali viene sviluppata progressivamente e, soprattutto, naturalmente. Se deve essere loro data un’educazione alla sessualità, questa deve essere mirata a far acquisire una consapevolezza del corpo, a far conoscere i metodi di prevenzione che garantiscono di vivere la sessualità con serenità, senza pericolo di dover affrontare malattie o gravidanze indesiderate. Ma certo non penso certo che l’educazione sia necessaria per la definizione di un gusto personale e, proprio per garantire che sviluppassero naturalmente e liberamente le loro tendenze, ho cercato con grande passione di far nascere nelle loro menti così vivaci il valore del rispetto altrui, il rispetto di tutte le minoranze, la voglia di superare con l’amore per il prossimo ogni forma di razzismo.
Queste idee, che nella mia formazione familiare e scolastica sono state talmente presenti da apparirmi innate, sono divenute, per me, uno strumento didattico indispensabile. Per lo specifico compito che svolgo, il primo obiettivo che mi pongo è garantire l’accettazione di ogni ragazzo, pur se percepito dagli altri e per vari motivi come “diverso”. Ed è proprio l’educazione alla diversità che occupa un ruolo fondamentale nel processo di integrazione sociale e culturale. Tale educazione permette ai ragazzi di comprendere l’handicap di un compagno di banco, vincere la paura per chi ha la pelle di diverso colore, accettare chi manifesta comportamenti sessuali considerati non ordinari dalla società odierna. Diverse condizioni, evidentemente, ma unite nel loro destino di discriminazione.
Il lavoro di insegnante è lungo e meticoloso, basato su attività didattiche di gruppo in grado di valorizzare ed integrare chi è considerato “diverso”. È un lavoro che, dopo anni di sacrifici, dovrebbe formare delle persone in grado di rendere migliore la nostra società; è per questo che vado fiero del mio lavoro. E la canzone di Povia ha demolito in un sol colpo il lavoro di anni. Una canzone in cui l’essere gay è esclusivamente negatività. Le armi sono dispari. Io e i miei colleghi, nei limiti dell’orario scolastico, educhiamo i ragazzi al ragionamento; una canzone diffusa dai mass-media propone un’improbabile soluzione ad un problema che non esiste, e senza riflessione. Quei quattro minuti di parole, cantati (in modo maldestro) come se fossero una filastrocca, una nenia, da tanti pappagalli che ne ignorano il significato agisce in modo subdolo, come una pubblicità, puntando sull’istinto e sfruttando il potere che ha la televisione.
Nonostante il danno ho reagito con l’impegno. Ho ignorato la canzone di Povia, che i ragazzi hanno continuato a cantare. Ho solo spiegato loro che un uomo resta sempre libero di amare chi vuole. Certo… io l’ho spiegato senza rime improbabili. E in me resta la rabbia per chi, forse volutamente, ha compromesso un percorso di integrazione, sofferto, doveroso, necessario.
(Paolo Sullo – Napoli)
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