La recente pubblicazione da parte de Il Corriere della Sera della lettera di una ragazza ventunenne sieropositiva, ha riacceso un dibattito che a nostro giudizio non avrebbe dovuto essere – agli occhi dell’opinione pubblica – mai spento: l’AIDS esiste ed è un problema. Come associazione glbt, il Milk ha tra i propri scopi statutari la sensibilzzazione e l’informazione sulle malattie sessualmente trasmissibili non solo all’interno delle realtà omosessuali milanesi ma anche nel “mondo etero”. Al momento, nelle nostre ridottissime possibilità, ci siamo mossi soprattutto verso un pubblico estremamente giovane. La lettera della ragazza bocconiana ha dato vita anche nella mailing list interna al consiglio direttivo dell’associazione ad una serie di considerazioni: tra chi riteneva che fosse opportuno scrivere al Corriere dicendo “Beh e ce ne siamo accorti solo ora quando sono anni che ASA, Lila, Anlaids, ALA lottano in merito” e chi si è scaldato molto – pur sottolineando la comprensione dovuta all’autrice – per la selva di pregiudizi e preconcetti sulla malattia stessa che quella lettera porta con sé. Abbiamo deciso di pubblicare l’intervento di Luca Proverbio, nostro consigliere, per ampliare il dibattito a tutti coloro che al Milk sono legati o semplicemente desiderino dare il proprio apporto.
A mio parere c’è qualche “vizio di forma”, non solo nella lettera della ragazza ma anche nelle nostre. La ragazza torna non solo sull’argomento Aids in modo improprio, ma torna indietro (forse per la sua giovane età, che quindi non le ha permesso di vedere le campagne a tappeto sull’uso del preservativo degli anni 80 e 90) anche nel linguaggio, cosa che infatti abbiamo rilevato… Il problema è che torna indietro concettualmente, praticamente sostenendo che l’Aids alla fin fine è la malattia degli infedeli, che chi è “fedele” (leggi: ha solo un determinato tipo di sessualità risolta in uno specifico modello di vita) merita la salute… insomma il solito concetto cattolico (in piccolo) come unico strumento, ad esempio, della prevenzione in Africa: non serve il preservativo, servono la castità e la fedeltà.
Con simili basi, è normale che ci sia un innalzamento del numero degli infettati a livello nazionale (e, by the way: la Lombardia e Milano, per inciso, sono la regione e la città capofila… quindi non solo le associazioni degli addetti ai lavori, ma anche un Sindaco o un Presidente di Regione “dovrebbero” essere interessati alla cosa…).
Il fatto è che le campagne per la lotta all’Aids non stanno combattendo un nemico in carne e ossa (come potrebbero? Non sono campagne contro, ad esempio, la pedofilia), ma combattono un virus che, per quanto concreto, rimane pur sempre qualcosa di astratto. In che direzione dovrebbe andare il mondo? Lo sappiamo:
1) La consueta e talora dimenticata via alla sensibilizzazione all’uso del preservativo;
2) La lotta allo stigma sociale.
Mentre la ragazza fa bene a sostenere che vorrebbe parlarne senza che la gente la guardi come una lebbrosa (l’hiv è ormai più “una malattia sociale” che una malattia letale), dall’altro lato sostiene dei concetti spaventosi sulla questione della trasmissione del virus. Per questo non sono molto d’accordo con chi dice “capisco la rabbia di una persona che è stata contagiata senza colpa”, perché, in fondo in fondo, a ben vedere una non è più o meno in colpa se è più o meno fedele, ma lo è con sè stessa se fa uso o meno del preservativo. La questione della colpa dovrebbe essere superata, ma evidentemente non è così: su questo piano sarebbe forse più logico dire che “E’ COLPA DI CHI NON USA IL PRESERVATIVO” (con qualcun altro prima e poi con te, come dice lei, come i padri di famiglia che poi infettano le mogli…). E’ così? Io direi di no. La lotta all’aids non può tornare una lotta all’untore.
Stando ai discorsi di questa ragazza, poi, quando parla di “una maggiore informazione o una rieducazione sessuale”, non sta parlando solo del preservativo (che è una EDUCAZIONE SESSUALE), sta parlando in senso lato di una RIEDUCAZIONE sessuale, quindi forse intende anche un’educazione dei costumi sociali, infatti la ragazza parla continuamente di fedeltà, del fatto che non è una ragazza dai facili costumi, una drogata… una “sessualmente ambigua” (leggi: non sono certo una omosessuale!).
Parliamoci chiaro, qua non si tratta di trovare nuove vie: finché c’era paura dell’aids e le campagne erano sul PRESERVATIVO, le infezioni calavano. Adesso che (grazie alle nuove terapie) la mortalità è un residuo agli occhi della gente e (grazie ad una irresponsabile “trascuratezza” ) le campagne, anche solo le pubblicità sul preservativo sono ormai assenti, le infezioni stanno aumentando.
Noi facciamo bene (e lo facciamo molto bene) a battere il chiodo della prevenzione, che è ad oggi purtroppo ancora l’UNICA VERA lotta all’aids. Può essere un nostro impegno anche il tornare a ricordare ai media cosa è pertinente e cosa no.
Prevenzione: SI; voli pindarici sui costumi sociali: NO;
Lotta all’emarginazione e informazioni sullo stato di salute, SI; Cercare l’untore, NO.
eccetera eccetera…
Scusate la lunghezza, ma volevo chiarire fino in fondo le ambiguità in cui si rischia di cadere… Trovo che la semplicità dei concetti di una volta fosse molto più efficace dell’ipocrisia di questa solidarietà e pietismo dell’ultimo minuto, tipo il Corriere della Sera. La gente si sta ritrovando a pensare l’aids come la malattia di froci, drogati e puttane, come all’inizio della “peste” degli anni 80, e le espressioni di una ragazza che l’ha contratto a 18 anni e oggi ne ha 21, ne sono la chiara prova.
Baci
Luca
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