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Vecchie storie 2


Nel precedente articolo (https://www.milkmilano.com/?p=7488 ), abbiamo parlato di un saggio di Eva Cantarella, dedicato alla concezione dell’amore nella letteratura greca antica. Come abbiamo anticipato, esso è idealmente collegato a un altro: “Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma” (Milano 2009, Feltrinelli).
Stavolta, la Cantarella accompagna il lettore in un universo letterario che è profondamente diverso da quello greco, ma che a quest’ultimo deve molto. Il titolo è una famosa citazione dal celeberrimo Carme V di Catullo: il poeta del I sec. a.C. sul quale è stato costruito il “falso mito” d’una lirica latina “romantica”. Ben poco di romantico c’è invece nell’universo riesumato dalla Cantarella. Leggere il suo saggio significa anche intuire le radici del machismo nostrano. E di certa omofobia.
Giusto per mantenerci in campo catulliano, il “poeta dei mille baci” non canta solo del proprio amore per Lesbia. I “Carmina” menzionano anche un ragazzo, Giuvenzio, dal quale Catullo si augura ben più che mille baci. Il modo esplicito con cui questa passione viene cantata rimanda a un mondo latino già ampiamente ellenizzato. Come abbiamo visto nell’articolo antecedente, le relazioni fra uomini adulti e ragazzi di libera condizione erano parte dell’universo della “pòlis”. Diversa, però, era la mentalità “indigena” dei romani: “…essere partner passivi in un rapporto sentimentale o sessuale era segno di debolezza, di mancanza di virilità. L’uomo romano, insomma, poteva amare qualcuno del suo sesso, ma solo come amante, mai come amato. […] La soluzione era a portata di mano: gli schiavi” (p. 16). La Cantarella aggiunge poi carne al fuoco: “Troppo facile, e troppo poco, per un romano, contentarsi del sesso femminile. Alla sua possente e inesauribile virilità –così gli hanno insegnato a percepirla- le donne non possono bastare. Deve sottomettere anche altri uomini: sempre che, beninteso, non siano suoi concittadini. Ecco perché i romani usano sodomizzare i nemici sconfitti…” (p. 21). A questo atteggiamento non si sottraeva neppure il “dolcissimo” Catullo, quando necessario. Ne seppero qualcosa i suoi amici Furio e Aurelio, quando cercarono di sedurre il suo Giuvenzio: ne ricavarono un profluvio di insulti sessuali in versi giustamente famoso tra gli studenti salaci. Viste le premesse, non risulta difficile comprendere quale sia l’origine della legge del Menga.
I rapporti erotici fra uomini, però, non consistevano solo nella sottomissione di schiavi e nemici. Esisteva la figura del prostituto: ricco e viziato, per i cui favori i “bravi cittadini” erano disposti a dilapidare patrimoni e a incorrere in seri guai legali. Il macho –si sa- viene sconfitto dalla bellezza impossibile.

Per tornare all’ambito domestico, non tutti gli schiavi erano uguali. Esisteva il concubino, un giovinetto che era il favorito del padrone. Il loro rapporto era continuativo e alla luce del sole, finché il padrone non prendeva moglie. Anche di questo canta Catullo, nel carme per le nozze di Manlio Torquato.
Quanto alle preferenze sessuali dei romani, non esistevano concetti simili a “eterosessualità” o “omosessualità” –intesi come identità e stili di vita. La Cantarella cita i versi di Lucrezio e di Orazio, che presentano come indifferentemente possibili la passione per una donna e quella per un ragazzo. A patto che quest’ultimo –così come in Grecia- fosse ancora impubere. Le relazioni con gli adolescenti divennero anche una “scappatoia” per i “macho vecchio stampo”, quando i costumi femminili divennero più emancipati. “Questi [i ragazzi] si fanno ancora corteggiare, con loro si può giocare ancora il ruolo del maschio” (p. 93). Naturalmente, c’erano anche voci fuori dal coro, come Ovidio, che trovava le donne di gran lunga più soddisfacenti come partner sessuali. Ma questo è un altro discorso.
Per quanto riguarda l’aspetto legale della faccenda, la Cantarella menziona la legge Scatinia (225 a.C. circa), che comminava una modesta multa a chi assumeva il ruolo passivo in un rapporto intimo fra uomini o a chi seduceva un libero cittadino. Tuttavia –precisa l’autrice- questa pur lieve pena non sarebbe stata applicata più di tanto. I poeti satirici come Giovenale, anzi, dipingono vivacissimi ritratti di maschi truccati e vestiti alla maniera femminile o di matrimoni ufficiosi fra uomini. Sia pure in chiave caricaturale, Giovenale menziona anche il desiderio impossibile di queste coppie d’aver figli. Il suo tono moralista e irridente, però, sarebbe tale da offendere molti lettori odierni. Ciò vale anche per gli strali di Marziale, impietoso con i “passivi”.
A risollevare il morale –quello dei bisessuali, quantomeno- arriva però un esempio illustre: Giulio Cesare. Noto dongiovanni, amante nientemeno che della regina Cleopatra, si concedette un’avventura regale anche in Bitinia, col re Nicomede. Inutile dire che ciò gli valse diverse frecciate da parte dei suoi soldati. L’umorismo da caserma, però, non impedì a Cesare di sdoganare la passività sessuale. Questo finché una morale più rigida –di matrice filosofica o semplicemente salutista- non portò alla sanzione della prostituzione maschile e a repressioni violente di questo costume. L’etica cristiana si innestò poi su questa situazione.
Ai lettori non sarà sfuggito il fatto che, finora, si sia parlato esclusivamente di relazioni fra maschi. Infatti, come dice la Cantarella, l’eros fra donne, nel mondo latino, era considerata la peggiore depravazione femminile. Nelle “Metamorfosi” di Ovidio, una “Lady Oscar ante litteram” piange la propria passione “contro natura” per un’altra ragazza, finché la dea Iside non si impietosisce e non la trasforma in un uomo vero. Questa storia, peraltro, è stata una probabile fonte per la vicenda ariostesca di Bradamante, Fiordispina e Ricciardetto (https://www.milkmilano.com/?p=7457 ). Marziale, poi, si accanisce contro le donne che, oggi, sarebbero definite butch, dipingendole come volgarissime caricature del maschio. “Nella mentalità dei romani, tra due donne che si amavano una voleva sostituirsi a un uomo, l’altra cercava in maniera del tutto anormale di provare grazie a un’altra donna il piacere che solo un uomo poteva dare” (p. 145).
Ci fischiano le orecchie, verrebbe da dire.

Eva Cantarella, “Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma”, (“Varia”), Milano 2009, Feltrinelli.

Testo di Erica Gazzoldi Favalli