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Vino bianco, fiori e vecchie canzoni…

Il titolo di questa rubrica è tratto da “Maledetta primavera” di Loretta Goggi, canzone che non tratta una tematica omosessuale ma che, suo malgrado, è diventata un’icona gay.Molti interpreti più o meno famosi, italiani e non, hanno cantato negli anni l’omosessualità, alcuni in modo serio, altri ironico, altri ancora sussurrato. Le canzoni sono lo specchio dei tempi in cui vengono create. Perciò riascoltare le canzoni omosessuali significa non solo riscoprire piccole gemme “a tema” magari dimenticate dal tempo, ma soprattutto analizzare la crescita umana e culturale di una società.

Era il 1976 quando i Pooh decisero di rompere il sodalizio con Giancarlo Lucariello, loro produttore dai tempi di “Opera prima”.
La collaborazione aveva dato vita ai dischi migliori del gruppo (“Alessandra”, “Parsifal” e “Un po’ del nostro tempo migliore”), ma l’ultimo lavoro, “Forse ancora poesia” del 1975, era stato una grossa delusione sia sotto un profilo artistico che commerciale.
Così, finalmente emancipati, i Pooh si autoprodussero per la prima volta e il risultato fu l’album “Poohlover” il cui singolo “Linda” balzò subito al primo posto della Hit Parade di Lelio Luttazzi.
Il disco conteneva alcuni pezzi molto belli, tra cui “Storia di una lacrima” e “Il primo giorno di libertà”, che raccontava il disagio di un ex carcerato.
Ma la vera chicca del disco era la traccia numero tre, ovvero quella “Pierre” che, a tutt’oggi, rappresenta uno dei grandi cavalli di battaglia del quartetto (oggi trio).
Per la prima volta un gruppo nazional-popolare parlava senza mezzi termini di travestitismo, e lo faceva con una poesia ed un sentimento talmente sinceri da non far minimamente sospettare ad un’eventuale (ma , sotto sotto, anche molto probabile) azione di marketing.
E’ vero che “Porci con le ali” era dietro l’angolo, ma certi argomenti erano ancora tabù, almeno presso il grande pubblico.
Nella canzone i Pooh raccontano di un ex compagno di scuola, ai tempi sbeffeggiato per “quel suo sguardo da bambina, per quella sua dolcezza strana”.
Triste, aggiunge la voce solista di Roby Facchinetti. Infatti, anche se in inglese “gay” significa allegro, non è mai tanto divertente avere intorno un mondo che, quando ti va bene, non ti capisce e ti esilia e che, quando ti va male, arriva ad offenderti se non, addirittura, a massacrarti di botte.
Oggigiorno il bullismo è un fenomeno combattuto a livello sociale, ai tempi invece era una vergogna da tenere chiusa tra quattro mura, soprattutto se si aveva la “disgrazia di avere un figlio frocio”.
Questo Pierre, una volta cresciuto, ha il coraggio di vivere la propria diversità travestendosi, perché “non si arrende a un corpo che non vuole”.
E qui arriva l’atto di dolore del cantante, che si scusa per le offese del passato poiché ora, che finalmente ha capito, lo apprezza per avere il coraggio di essere quello che è.
Lui che può.
Quasi che il ribellarsi ad una condizione sessuale che non si sente propria possa essere, in certi casi, più facile che sfuggire a certe convenzioni sociali che attanagliano la maggior parte della gente comune.


Ma “Pierre” non è stata la prima volta “gaia” del gruppo.
Già nel 1973, all’interno del bellissimo “Parsifal”, i Pooh cantarono una storia dai risvolti lesbici.
Si tratta della quinta traccia del disco, intitolata “Lei e lei”.
Nella canzone il solito Roby Facchinetti racconta della sua relazione con una ragazza molto ma molto amica di un’altra ragazza che, a sua volta, turba i sensi del protagonista.
Ma lui è fedele alla sua donna perciò l’idea di tradirla con la sua migliore amica è inconcepibile.
Una sera, però, la sua ragazza gli dà il benservito.
Lui non capisce, fa domande, vuole una spiegazione. Ma poi, dietro alla fanciulla, vede il sorriso dell’amica e capisce che lei ha preferito lei.
“In silenzio vi guardai, ciò che vuoi ma questo mai”.
Doveva arrivare il 1978 con Renato Zero per sdoganare il triangolo nella musica leggera italiana.


Non so se nel corso degli anni i Pooh abbiano affrontato ancora il tema dell’omosessualità in altre canzoni.
È dai primi anni ottanta che non li seguo più, rei, a mio avviso, di aver partorito troppi figli e troppe canzoni da palasport.
Però nel 1990 rimasi piacevolmente sorpreso dalla loro vittoria al Festival di Sanremo in cui, per una volta tanto, trionfò la canzone più bella in gara.
Si trattava di “Uomini soli”, dolente affresco sulla solitudine maschile nelle grandi metropoli. Tra le varie motivazioni per giustificare come mai certi uomini sono soli, i Pooh insinuano un “forse perché sono dei diversi”.
Ma allora hanno proprio il vizietto!

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