Ti ricordo ancora (Fabio Concato)
Fabio Concato – 1984
A Dean Martin (Fabio Concato)
Storie di sempre – 1977
Era il 1977 quando un giovane artista di 24 anni, tale Fabio Piccalunga in arte Concato, fece il suo esordio sul mercato discografico con un album intitolato “Storie di sempre” che conteneva “A Dean Martin”, singolo che divenne un discreto successo sia radiofonico che di vendite.
Il tormentone “Ragasina, piccolina” in finto accento italo-americano entrò a far parte del gergo di quei tempi e la presa in giro del tipico macho a stelle e strisce che si perdeva dietro ad una bella fanciulla, scoprendo in seguito trattarsi di un travestito, toccava in modo graffiante un tema ancora poco battuto all’interno della musica italiana.
Da ragazzini rimanemmo tutti affascinati da questa storia in stile “La moglie del soldato” in cui il cantante, spogliando la ragazza, cantava con voce perplessa “quanto pelo hai sul petto, ora che ti guardo meglio sembri proprio un ometto”.
Ma il “clou” della canzone era l’accenno razzista “con tutti i negri perché proprio a me che sono bianco e pulito come un giglio”, che andava a prendere in giro l’ipocrisia degli Stati Uniti che, proprio in quel periodo, si stavano lavando la coscienza con gli afro-americani girando film come “Mandingo” e “Radici”.
Dopo questo esordio Concato incise un secondo disco del 1979 il quale, nonostante la bella “Zio Tom” (ripresa anche da Mina nel 1990), non lasciò grandi segni del suo passaggio.
Ci volle il 1982 e “Una domenica bestiale” per riportare all’attenzione del grande pubblico il nome di questo sensibile cantautore.
Ma fu il 1984 l’anno del grande botto. Con l’album omonimo, Fabio Concato conquistò le zone alte della classifica, regalando al mondo della musica leggera un album bellissimo, dal perfetto equilibrio tra dolcezza, poesia ed ironia.
Il singolo trainante di “Fabio Concato” era “Fiore di maggio”, che l’artista aveva dedicato alla nascita di sua figlia. Ma uno dei brani più interessanti era la seconda traccia dell’album.
Si trattava di “Ti ricordo ancora”, quasi un’altra “Pierre” dei Pooh, ma più delicata, serena e meno sofferta.
Parla di un compagno di classe mai dimenticato e del primo (ma chissà se unico) turbamento omosessuale del protagonista.
“E ti ricordo ancora, le braghe corte di tuo fratello e le gambe viola”, così comincia la canzone, trasportando subito l’ascoltatore all’interno del mondo un po’ naif di Concato.
Non c’è nulla di romantico in questa frase, ma è proprio da un’immagine così poco gradevole che si intuisce tutta l’affettività intrinseca. Infatti, quando si vuole bene a qualcuno, si amano anche le sue imperfezioni, perché sono proprio quelle a renderlo così unico e tenero ai nostri occhi.
“Eri un omino ma dentro avevi un cuore grande che batteva forte un po’ per me”. Che altro si può dire dopo questa riga così semplice, diretta, che contiene tutta l’ingenuità e la forza del primo amore?
Ma eravamo in un’epoca ben diversa da quella attuale (Concato è nato nel 1953 per cui, ipoteticamente, la canzone dovrebbe svolgersi intorno alla metà degli anni sessanta) ed un maestro che scoprì i due bambini ad accarezzarsi durante il doposcuola non fu in grado di comprendere.
Chissà cosa capitò allora. Ci fu uno scandalo? I due bambini furono separati, un po’ come accade alle due protagoniste di “Le mille bocche della nostra sete”, il bel libro di Guido Conti?
L’unica cosa certa è che nessuna ottusità umana può separare chi si vuole bene veramente. Perché c’è la memoria che aiuta a non perdere mai nel tempo una persona amata, domandandosi se sarà ancora la stessa (“chissà se parli ancora agli animali, se ti commuovi davanti a un film”) o se il mondo esterno la avrà costretta a indossare una pelle un po’ più dura per riuscire a sopravvivere.
Musicalmente “Ti ricordo ancora” è semplice e lineare, senza grandi voli pindarici.
Ma, come in quasi tutte le canzoni di Concato, è il testo il piatto forte.
Un testo vero, diretto e commovente, come solo i sentimenti autentici sanno essere.
Anche il riferimento alla madre dell’amico, stanca di fargli un po’ da padre, diventa poesia e non sfiora il pericoloso limite della facile psicologia da salotto.
Questa canzone, come tutto il resto del disco che la contiene, è assolutamente un “must” per chi vuole possedere una discografia degna di tal nome.
Brani come “Guido piano”, “Tienimi dentro te”, “Sexy tango” e “Rosalina”, oltre alle due canzoni già citate, sono una prova tangibile di quando in Italia c’era ancora la voglia di produrre musica per palati fini.